Tra le proposte di legge volte al ripristino di festività civili presentate a Montecitorio, si segnala quella dell'onorevole Paolo Cento. Egli intende far riconoscere come festivo "il giorno 20 settembre, anniversario della breccia di Porta Pia". In altri termini, tornare alla legge 401 del 1895, che dichiarava tale data solennità civile. Nell'illustrare la proposta, Cento ricorda che la festività era stata abolita "per volontà di Mussolini". È vero che il 20 settembre 1930 era stata l'ultima commemorazione ufficiale e che, con la legge 1726 del 27 dicembre successivo, l'11 febbraio, ricorrenza della Conciliazione, aveva sostituito quella data come solennità civile, ma, diversamente da quanto noto finora, la resistenza del Duce alle pressioni vaticane in quel senso era stata tutt'altro che debole. All'ambasciatore presso la Santa Sede De Vecchi - che aveva richiamato la sua attenzione sulla opportunità di abolire la festività a seguito dei Patti del Laterano firmati l'11 febbraio del '29 - Mussolini aveva replicato che non riteneva ancora possibile tale abolizione e che la festività "sarebbe caduta da sé, gradatamente", aggiungendo, in una lettera dal tono risoluto al nunzio apostolico, che il Concordato non menzionava quella celebrazione, che egli non intendeva modificare la legge sulle festività e che, comunque, "senza gli avvenimenti del 20 settembre 1870 non ci sarebbero stati quelli dell'11 febbraio 1929". A suo avviso - come riconoscerà nel 1970 Paolo VI - il 20 settembre era "stato un bene per tutti e anche per la Chiesa", un evento che "evidentemente rientrava nei disegni della Provvidenza Divina". Il ricorso alla Provvidenza, alla quale, circa due anni dopo, Pio XI attribuirà il merito di avergli fatto incontrare il Duce, non servì a soddisfare il Pontefice, che incaricò la diplomazia di insistere, suggerendo anche a De Vecchi che, intanto, il governo esponesse il 20 settembre del '29, insieme alle altre bandiere, "anche quella pontificia... allo scopo di togliere alla festa qualsiasi carattere di ostilità". Mussolini, ricevendo il nunzio Borgongini Duca il pomeriggio del 19, ribadì che la festa sarebbe caduta da sé, e che riteneva impossibile in quel momento l'abolizione anche "data la reazione manifestatasi dopo i Patti Lateranensi": si impegnava per l' anno successivo, purché il Vaticano non chiudesse, come in passato, il "mezzo portone di bronzo" e non sospendesse le udienze pontificie per protesta. Quanto all'esposizione del vessillo papale, escludeva Palazzo Venezia, trattandosi di "festa municipale", ma proponeva di esporlo in Campidoglio, all'ambasciata e in nunziatura. Pio XI accettò e, per la prima volta, la bandiera battuta a Porta Pia finì per festeggiare la propria sconfitta. Dino Grandi, nuovo ministro degli Esteri, trovò geniale la soluzione che, a suo avviso, smontava "le mene degli anticlericali, i quali si preparavano a inscenare dimostrazioni ostili". Sui muri di alcuni istituti religiosi in Roma erano stati affissi cartelli con la scritta: "Il Vaticano è un coltello nel cuore d' Italia". Un anno dopo, ricordando al segretario di Stato, Pacelli, di aver "più volte nel corrente 1930 trattato con S. E. il Capo del Governo per l'abolizione del 20 settembre", il nunzio riferì di un nuovo colloquio con il Duce (propiziato da Grandi) che si era però concluso con un ulteriore rinvio per motivi di "opportunità" e per i dubbi di Mussolini a procedere "per circolare", pur con l'impegno di "sgonfiare la festa", di portare la questione al prossimo Consiglio dei ministri e in Parlamento, dove egli l'avrebbe sostenuta. Il nunzio ribadì la richiesta di abolizione prima del 20 settembre del '30, minacciando una "pubblica protesta" di Pio XI con il rischio che si riaprisse la... questione romana, almeno una volta l'anno, "nel punto più sostanziale del dissidio", e ricordando che il Papa aveva celebrato messe in suffragio del nipote defunto del Duce. Questi, dichiarando che "il ragazzo era proprio un santo" e assicurando che avrebbe riferito "dell'atto di degnazione del S. Padre" al fratello ("il quale è più credente di me"), avrebbe soggiunto: "Io pure sono credente: altro che!, ma gli uomini mi hanno fatto cattivo...". Il nunzio si affrettò a confermare, assicurandolo che il Signore aiutava il Duce "visibilmente", altrimenti non avrebbe potuto "tenere uniti e al posto tanti uomini, quanti ne tiene Lei": c'è da sperare che il buon Dio non fosse, poi, proprio d'accordo almeno sui metodi che venivano adoperati per tenere "uniti e al posto" gli italiani. Assicurando al nunzio che, con una circolare ai prefetti, avrebbe provveduto a "sgonfiare ancora di più quest'ultimo 20 settembre", il Duce preannunziò il riordinamento delle festività civili: il 28 ottobre dei fascisti avrebbe sostituito il 20 settembre dei liberali. Perplesso, Borgongini, scusandosi per la propria ignoranza in materia, domandò che data fosse mai "questo 28 ottobre". Una guardataccia fu l'eloquente risposta di Mussolini, che, alle insistenze sulla festa della Conciliazione, replicò che il Papa non poteva chiedergli di cambiare il nome alle strade intitolate al 20 settembre in tutti i comuni italiani e di eliminare dai libri di scuola la storia di quell'evento. La conclusione è nota: al Consiglio dei ministri del 15 ottobre 1930 il Duce presenterà il disegno di legge per il riordino delle festività e il 27 dicembre la Conciliazione entrerà tra le solennità civili al posto della presa di Roma. Ci erano voluti comunque due anni per fare sparire formalmente il ricordo di Porta Pia. |