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La Devequt, l'unione del divino con l'umano, ha sempre procurato all'ebraismo un'alternanza di atteggiamenti.

Gershom Scholem, uno dei massimi studiosi della Qabalah ha sottolineato spesso l'assenza di un'unione totale con il Divino nei testi ebraici: "Solo in casi estremamente rari l'estasi significa un'unione effettiva con Dio ; momento di abbandono dell'individualità umana nell'estasi della completa immersione nel, flusso divino. Anche in questa cornice estatica, il mistico ebreo mantiene quasi invariabilmente il senso della distanza tra il Creatore e la sua creatura".

La diagnosi dello Scholem è stata talmente accettata da molti studiosi da procurare ad una parte dell'ebraismo un'ostilità nei confronti del concetto di unione. Tale concezione dobbiamo farla risalire agli scritti di molti cabalisti spagnoli fino all'espulsione degli ebrei del 1492; tale orientamento si perpetuò successivamente anche nell'Africa settentrionale, in Italia e nell'Impero Ottomano:

Ad un più approfondito esame, moltissime descrizioni unitive ricorrono nella letteratura cabalistica in misura non certo inferiore rispetto a scritti esoterici non ebraici; inoltre molte immagini utilizzate dai cabalisti non sono affatto minori alle forme più radicali di altre dottrine tradizionali.

Moshe Idel scrive: ''La mancanza nell'ebraismo di unio mystica è infondata sia dal punto di vista teoretico, sia da quello fattuale. I cabalisti impiegavano una terminologia filosofica unitiva, già esistente molto tempo prima della composizione delle loro opere e accettata dalle cerchie ebraiche".

La storia della filosofia ebraica è la storia degli influssi che essa ricevette da altre civiltà, questi influssi non sono mai rimasti quali erano, ma vennero sempre sottoposti ad una particolare assimilazione che fu nello stesso tempo una modificazione, una fusione ed anche un arricchimento di nuovi e complessi elementi.

L'ebraismo essendo una completa visione della vita, come tutte le grandi Tradizioni, possiede un propria dottrina dell'Assoluto, del mondo e dell'uomo. La storia del pensiero ebraico è perciò storia dello sforzo per risolvere i grandi misteri della Realtà e dell'universo, i quali diventano più acuti per chi, già in possesso di un patrimonio di Verità rivelata, sente la necessità di giustificare e perciò comprendere maggiormente la sua fede.

Le concezioni dell'unione con la nostra controparte divina, la Devequt, sono state, perciò, sempre ben note e sono ricorse spesso nei trattati cabalistici con un moltitudine di espressioni unitive che non hanno mai costituito un problema né dal punto di vista sociologico né da quello religioso.

Perciò l'evidenza testuale dimostra un orientamento diverso da quello indicato dallo Scholem.

Per esempio la Qabalah di Gerona intendeva la Devequt come valore spirituale di importanza centrale. Abraham Abulafia, in uno dei suoi commenti alla "Guida dei perplessi", affermò che le facoltà umane ascendono gradualmente all'Intelletto attivo (la Buddhi Indù): "... esse si uniranno con esso dopo una serie di esercizi estremamente severi e difficili, finché la facoltà particolare e profetica diverrà universale, permanente ed eterna, simile all'essenza della sua causa: allora egli ed Egli diverranno un'entità".

L'uomo è parte di un'entità più grande: per mezzo della sua essenza egli può ricostruire tale unità e le espressioni "Io, io" e "io, anch'io sono Lui", indicano l'unione del divino con l'umano.

Nel trattato Sha'are sedeq, di uno dei discepoli di Abulafia, l'uomo si eleva allo stato di entità che siede nel trono divino.

Yishaq da Acco: "Essa (l'anima) si congiungerà con l'Intelletto divino e questo si congiungerà a lei ed essa e l'Intelletto divino diverranno una. sola entità, come se qualcuno versasse una brocca d'acqua in un pozzo d'acqua corrente, in cui tutto diventa Uno. Questo è anche il significato segreto dell'espressione un fuoco che divora un fuoco".

Il cammino unitivo, la Teshuvah, secondo Levi Yishaq è in tre stadi:

 

- distacco dalle necessità corporali

- unione del proprio pensiero a Dio

- povertà spirituale o morte [dell'io] al culmine del cammino unitivo, la Devequt.

 

Raphaël scrive:

"Tutta la Tradizione [non solo ebraica], ricerca e costituisce attraverso i suoi vari insegnamenti una esperienza interiore basata sulla reale trasformazione coscienziale esulando dalla comune rappresentazione mentale e, nella sua espressione simbolica, che è propria di ogni "dottrina", è volta al conseguimento dell'universale, con il superamento e dissolvimento dell'individuale".

"Il simbolo è espressione di Conoscenza sintetica e, in quanto e come tale, va penetrato, attuato vissuto. In ciò, dunque differisce dal concetto analitico - razionale (che è semplice rappresentazione formale), per il quale non v'è altra operazione che quella di acquisirlo, assimilarlo, facendone, così, parte e fondamento del proprio modello mentale e comportamentale. Così la conoscenza analitica, come la filosofia discorsiva, è teorizzazione, concettualizzazione, fissazione e cristallizzazione mentale; la Dottrina, [nel nostro caso la Thorah orale, la Qabalah] invece, è decoagulazione, soluzione di ogni cristallizzazione mentale, è vita".

"Il giusto accostamento all'Insegnamento dottrinario esige l'adeguata stabilità coscienziale al livello intuitivo - sintetico e la totale trascendenza del dominio analitïco - razionale, proprio della mente individuale, della coscienza separata ed empirica (senso dell'io) con le cui modalità può apparire in netto contrasto e opposizione. La Sintesi è comprensione, mentre l'analisi implica l'esclusione e la separazione di ciò ch'è in sé unitario, indivisibile, non duale. Perciò la realizzazione dell'Essenza esige la Trascendenza della sostanza e la comprensione della forma".

"Risponde a un'evidenza che il divenire dei nomi e delle forme nasce, cresce e muore; il dire però che l'Essere in quanto tale sta dietro al divenire e che Esso può anche essere realizzato può costituire, per alcuni, una novità. E la Conoscenza Tradizionale invita alla realizzazione dello svelamento di tale Essere che rappresenta il fondamento unitario di tutte le cose che appaiono". Se c'è questo svelamento, questo risveglio, la liberazione o "la morte dei Filosofi", allora l'ente riprende la pienezza di sé stesso in sé stesso, e le cose che appaiono e scompaiono finalmente trovano il loro giusto posto e non saranno più causa di alienazione.

La morte dell'io implica il risveglio, la liberazione ed assicura una seconda nascita, una nascita alla vita eterna, la Devequt.