Il documento che presentiamo ai nostri Ospiti è opera d'ingegno del carissimo Fratello Alfredo Cattabiani ed ha trovato ospitalità su "Massoneria Oggi" anno V n.1 Gennaio Marzo 1998. Ogni diritto è dichiarato.

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© Alfredo Cattabiani

 


 

Si favoleggiava anticamente che Medusa, una bella giovane dai capelli dorati, figlia di due divinità marine, Forcide e Ceto, avesse suscitato l'amore di Poseidone. Per sedurla il dio azzurrocrinito, come lo definisce Esiodo, si era mutato in un uccello e con un espediente l'aveva posseduta nel tempio di Atena mentre lei stava officiando. La dea, furibonda per la profanazione del luogo sacro, la trasformò insieme con le sorelle, Euriale e Stenno, in altrettanti mostri: le loro teste erano coronate di serpenti, avevano grosse zanne simili a quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d'oro che permettevano loro di volare. Lo sguardo era così penetrante che chiunque lo avesse fissato anche soltanto per un istante sarebbe stato pietrificato. Delle tre Gorgoni Medusa era mortale, le sorelle immortali (1).

La mostruosa creatura era in realtà l'immagine demonizzata che gli Elleni, giunti nel Mediterraneo, avevano attribuito alla Grande Madre libica Neith cui era associato il cavallo ctonio: "figlio della notte", era come la Grande Dea portatore di vita e di morte, legato all'acqua di cui conosceva i cammini sotterranei; per questo motivo aveva il dono di fare scaturire sorgenti con un colpo del suo zoccolo.

Con l'avvento della religione patriarcale degli Elleni, popolazione di origine indo-europea, il cavallo viene associato a Poseidone, come testimonia il mito che si è narrato, analogo a quello dello stesso dio che genera Arione in Demetra trasformatasi non casualmente in giumenta: "ambedue i miti descrivono" osserva il Graves "come gli Elleni devoti a Poseidone sposassero a forza le sacerdotesse della luna senza lasciarsi impaurire dalle loro maschere di Medusa, e assumessero il controllo dei riti propiziatori di pioggia e del culto del cavallo sacro" (2).

Per questo motivo si narrava che il cavallo fosse stato creato da Poseidone quando, in gara con Atena per il possesso dell'Attica, lo aveva fatto uscire prodigiosamente dalla terra. E non a caso si favoleggiava che Pegaso, balzato dal collo della Medusa dopo che era stata decapitata da Perseo, si era abbeverato alla fonte Pirene, sulla strada che conduceva al santuario di Poseidone, prima di giungere sull'Elicona.

Su quel monte fece scaturire con un colpo dello zoccolo lunato Ippocrene, ovvero la Sorgente del Cavallo, alla quale le Muse si dissetavano nutrendo la loro ispirazione per poi volare alla volta dell'Olimpo con voce sublime. Sicché il cavallo alato, che aveva fatto sgorgare la sorgente delle Muse, diventò l'emblema dell'Immaginazione creatrice, del Furore poetico. Nella Villa Lante di Bagnaia, che il cardinale Riario compì nel 1576, sono mirabilmente rappresentati la fonte Ippocrene e il volo del cavallo, ovvero il furore poetico, nel giardino solcato da un gioco immaginifico di acque.

Un giorno Pegaso venne catturato da Bellerofonte che aveva bisogno di quella creatura alata per compiere una impresa disperata. Il giovane, figlio di Glauco, discendeva dalla casa reale di Corinto. Le sue vicissitudini erano cominciate con l'uccisione accidentale di un uomo, la cui identità varia a seconda delle versioni del mito:(3) a causa di quel delitto era stato costretto a lasciare la città e a recarsi a Corinto dove il re Preto lo aveva purificato.

Sfortunatamente il giovane aveva dovuto respingere la corte insistente della moglie di Preto, Antea, perché non poteva tradire la fiducia che gli aveva accordato il suo ospite. Ma la donna, furibonda per l'affronto subito, era corsa dal marito dicendogli: "Preto, che tu possa morire se non uccidi Bellerofonte, a me volle unirsi in amore, ma io non volli!". Il re infuriato, non avendo il coraggio di uccidere un ospite per sua natura sacro, lo mandò dal suocero nella Licia, con una lettera sigillata dove gli narrava l'affronto subito e lo pregava di eliminare quel giovane che aveva tradito anche le leggi dell'ospitalità (4).

Il re della Licia, Iobate, dopo aver letto il messaggio, pensò di ottenere lo stesso scopo ordinandogli di uccidere la Chimera, un essere mostruoso, leone nella parte anteriore, drago nella posteriore e con una testa caprina che sputava fiamme: quell'essere spaventoso, generato da Tifone ed Echidna, devastava il Paese e razziava il bestiame.

Per compiere l'impresa, Bellerofonte domò Pegaso (5) e cavalcandolo scovò la Chimera, la ferì gravemente frecciandola e riuscì a conficcarle fra le mascelle un pezzo di piombo che, fuso dall'alito rovente, scese nello stomaco uccidendola. Iobate, deluso dal suo inaspettato ritorno, lo mandò a combattere contro i bellicosi Solimi e le loro alleate, le Amazzoni; ma anche quella volta Bellerofonte li sconfisse volando col suo magico cavallo da cui lasciava cadere grosse pietre sulle loro teste.

Il re decise allora di farlo uccidere in un agguato dai suoi uomini più valorosi: ma il giovane ancora una volta riuscì a salvarsi massacrando gli assalitori. A quel punto Iobate, cominciando a sospettare che fosse non soltanto innocente ma anche protetto dagli dei, decise di mostrargli la lettera del genero chiedendogli spiegazioni. Saputa la verità, gli concesse in sposa la figlia Filinoe, sorella di Antea, nominandolo erede al trono di Licia.

Tutti quei successi avevano talmente esaltato il giovane che un giorno decise di volare sull'Olimpo con il suo alato cavallo, quasi fosse un immortale. Zeus mandò allora un tafano che punse Pegaso facendolo sgroppare in modo da disarcionare Bellerofonte, il quale cadde ingloriosamente in un roveto. Da quel momento, l'incauto giovane, simbolo di chi vuole essere simile agli dei senza propiziarne l'aiuto, vagò sulla terra, zoppo, cieco, solo e maledetto, evitando le strade battute dagli uomini, finché lo colse la morte.

Quanto a Pegaso, riuscì a raggiungere l'Olimpo dove Zeus l'accolse alloggiandolo nelle antiche stalle del monte e servendosi di lui per trasportare le folgori forgiate dai Ciclopi. Infine, per ricordarne la preziosa funzione, lo volle immortalare nel firmamento (6).

 

 Il Quadrato di Pegaso

 Pegaso è una delle costellazioni più facilmente individuabili del cielo fra luglio e gennaio, situata sopra i segni dei Pesci e dell'Acquario. In realtà nel cielo è rappresentata soltanto la metà anteriore del cavallo, ma nonostante questa mutilazione è la settima costellazione per dimensioni. Una delle sue caratteristiche è il quadrato di Pegaso, formato da quattro stelle brillanti; ai tempi dei Greci una di queste era ritenuta in comune con Andromeda e segnava sia l'ombelico del cavallo che la testa della figlia di Cefeo e Cassiopea. Gli astronomi moderni l'hanno invece attribuita ad Andromeda (Andromedae).

Delle tre stelle del quadrato Pegasi è detta Markab, che in arabo significa Sella; Pegasi è chiamata, anche, Scheat, il Polpaccio ma fra gli arabi era più popolare col nome di Mankib al faras, la Spalla del Cavallo; Pegasi è Algenib da al Janah, l'Ala, o secondo un'altra interpretazione da al Jamb, il Lato.

Al Quadrato s'innesta una linea curva formata da tre astri brillanti che rappresentano il collo e la testa dell'animale.

Nella mitologia mesopotamica, il Quadrato di Pegaso era detto I-ikû, termine che designava anche il tempio di Marduk a Babilonia, com'è noto dal rito babilonese del Capodanno dove si diceva: "stella I ikú, Esagil, immagine del cielo e della terra" (7).

Secondo il racconto mesopotamico del Diluvio Utanapishtim, analogo al Noè dello Antico Testamento, racconta a Gilgamesh che Enki-Ea lo aveva avvertito della decisione di Entil di eliminare l'umanità e gli aveva spiegato come costruire l'Arca senza avvisare gli altri del pericolo incombente. L'imbarcazione doveva essere un cubo perfetto, dove ogni parete, la copertura e il pavimento fossero un "I-ikû" di spazio piano, ovvero un quadrato (8). Dunque il quadrato celeste era l'immagine del Cielo e il suo riflesso sulla terra.

 

Sui racconti mitologici dei Diluvi, consultare anche in questa stessa sezione:

I Diluvi

 

Per capire l'origine di questo simbolismo, occorre esaminare il cielo stellato com'era all'inizio del quinto millennio avanti Cristo, quando l'equinozio di primavera cadeva nei Gemelli e l'autunnale nel Sagittario: ambedue i segni erano situati sulla Via Lattea, come ha rilevato Giuseppe Maria Sesti. La Via Lattea si trovava tesa come un arco sopra la Stella Polare, la quale allora era situata sulla coda del Drago.

Il solstizio estivo cadeva a sua volta nella Vergine e quello invernale nei Pesci tra i quali troneggiava, proprio sul meridiano del solstizio, il Quadrato: "La perfetta collocazione geometrica del Quadrato sull'asse dei solstizi in rapporto con l'altra coincidenza fra equinozi e Via Lattea, dove dimoravano temporaneamente le anime dopo la morte prima di reincarnarsi, aveva fatto sì che esso venisse identificato come il centro carismatico del cielo in cui si fondeva l'armonia universale. Per questo motivo venne chiamato Paradiso, il mitico giardino primordiale dov'era avvenuta la creazione" (9). Quel Paradiso, posto al di sopra del centro della Via Lattea, proponeva il modello escatologico dal quale proveniva la mitica unità di misura sumera, I-ikû. Là trasmigravano, dalla Via Lattea, le anime di coloro che in vita si erano purificate, si erano sottratti al ciclo delle reincarnazioni.

Nel 5000 a.C. il Quadrato si trovava, come si è spiegato, sul meridiano del solstizio della Vergine che era a sud, mentre proprio su di esso appariva Andromeda con la quale Pegaso condivideva una stella importante. Sicché il Paradiso era custodito da due immagini della Grande Madre - la Vergine e Andromeda - che sarebbe stata spodestata successivamente dai nuovi dèi solari maschili degli Elleni.

 

 

Il misterioso Cavallo

È invece difficile, se non impossibile, ricostruire il passaggio dall'immagine del Quadrato a quella più recente del Cavallo alato, che tuttavia dev'essere avvenuta in tempi abbastanza antichi se già Arato lo chiamava non casualmente "Il Cavallo Divino" e Nonno "il Cavallo libico a metà visibile" mentre la sua figura appariva su gioielli e monete dalla Mesopotamia a Cartagine alla Sicilia. Evidentemente lo si collegava in qualche modo al Paradiso custodito dalla Grande Dea alla quale l'animale, come s'è detto, era originariamente consacrato prima di essere attribuito a Poseidone. Ma questa figura cela anche un problema: è l'unica rovesciata in quella porzione di cielo. Probabilmente capovolta negli atlanti celesti greci in epoca relativamente tarda.

Se invece la riportassimo nella supposta posizione originaria e ricostruissimo virtualmente il cielo stellato com'era nel 3000 a.C. durante la notte del solstizio estivo, scopriremmo la Luna in perfetta congiunzione con il segno dell'Acquario mentre il Cavallo la colpisce col suo zoccolo facendo scaturire un'acqua divina che riempie il vaso dell'Acquario per poi riversarlo nel fiume celeste. Ipotesi non infondata se si pensa che, nell'antica astronomia indiana, gli Aswin, i quali svolgevano una funzione analoga a quella dei Dioscuri greco-romani ma avevano la testa equina, possedevano un cavallo chiamato Pagas: con il suo zoccolo, dicevano, "aveva riempito cento vasi di dolce liquore", ovvero del divino Soma.

 

1 - Le versioni del mito sono diverse. Noi abbiamo scelto quella più funzionale alla riflessione astromitologica. Cfr. Esiodo, Teogonia 270 ss.; Apollodoro II,4,3; Ovidio, Metamorfosi IV, 792-802; Euripide, Ione 989 ss.

2 - ROBERT GRAVES, I miti greci, Milano 1975, p.114, n.4.

3 - Lo si chiamò Deliade, che sarebbe stato suo fratello, oppure Pirene o Alcimene o infine Bellero, un tiranno di Corinto: il nome di Bellerofonte ricorderebbe dunque quel delitto poiché significa letteralmente "uccisore di Bellero".

4 - OMERO, Iliade VI, 164-170.

5 - Su questo episodio esistono varie versioni: vi è chi sostiene che Atena gli ispirò la forgiatura del primo morso, chi invece favoleggia che Poseidone glielo consegnò già domato, altri ancora che fu Bellerofonte a domarlo con una briglia d'oro.

6 - ESIODO, Teogonia 276 ss.; Apollodoro, Biblioteca 2,3,2; Strabone, 8,6,21; Pausania, 2,3,5; 4,1; 31,9; 9,31,3; Ovidio, Metamorfosi IV, 784 ss.; Iginio, Favole 151; Arato, I fenomeni, 295 ss.; Iginio, Astronomia 2,18.

7 - Citato da GIORGIO DE SANTILLANA-HERTA VON DECHEND, Il Mulino di Amleto, Milano 1975, p. 355.

8 - La saga di Gilgamesh, a cura di Concetto Pettinato, Milano 1992, p. 215 esso. (Epopea classica, tav. XI).

9 - GIUSEPPE MARIA SESTI, Le dimore del cielo, Palermo 1987, p. 417.

 

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