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Questo opera titolata, HORTULUS HERMETICUS FLOSCULIS PHILOSOPHORUM CUPRO INCISIS CONFORMATUS ET BREVISSIMIS VERSICULIS EXPLICATUS quo Chymiatriae Studiosi pro Philotheca uti, fessique Laboratorium ministri recreari possint …. Adversis Clarus Ardet. Francofurti, Impensis Lucae Jennisii 1627; consiste di una raccolta di centosessanta piccole incisioni, ognuna delle quali ricorda un ‘operatore’ o scrittore alchemico. Ogni disegno è racchiuso in duplici cerchi concentrici che misurano poco più di un pollice di diametro. Tra il cerchio interno e quello esterno corre una iscrizione, che mira a indicare il punto essenziale dell’epigramma corrispondente. L’Hortolus Hermeticus, divenuto famoso quasi quanto il Viridarium, si trova ristampato nelle ultime pagine del volume secondo della Bibliotheca Chimica Mangeti (1702).

L’umanità calda dello Stolcius, nonché l’indubbia dottrina di lui, si rivela fin da principio nell’epigramma che rivolge: AD LECTOREM PHILOCHYMIATRUM Ut revels animum proles Vulcania fessum, Hortulus ecce tibi noster apertus erit. Invenias in eo flores fontemque perennem, Quod juvet hinc oculis nare vel ore bibes. L’Hortulus fu edito, come si è detto, con i tipi di Luca Tennis, l’editore di Frankfurt, nel 1627, ma tra il 1624 e il 1627 più stretti erano divenuti i rapporti tra lo stampatore e lo Stolcius, tanto che, prima di cominciare la sua opera con l’epigramma I° dedicato a Hermes Trismegistus Aegyptius, lo Stolcius prepone: ‘Ad Ornatissimum et Humanissimum Virum Dominum Lucam Jennisium, Amicum meum charissimum’. Segue un anagramma sul nome e cognome dell’editore: LUCAS JENNISIUS IN SINU LUCIS EAS E poi aggiunge un tetrastico che spiega il senso dell’anagramma composto.
È da notare che in questa originale e così fitta raccolta di ‘medaglioni’ commentati dagli epigrammi corrispondenti tornano molte volte i nomi degli alchimisti famosi, cui sono intestate le incisioni del Viridarium. Non era facile trovare 160 nomi di alchimisti, ai quali intestare i medaglioni e gli epigrammi corrispondenti. Lo Stolcius non si sgomenta: si attiene alla tradizione secolare invalsa fra gli scrittori di alchimia, veri o non veri.
Un ripiego ingenuo e semplicista ma bonariamente innocuo: annoverare fra gli alchimisti non solo quelli per continuità di fama e per consenso unanime ritenuti indiscutibili cultori teorici e pratici di alchimia, ma estendere la qualifica di alchimisti a nomi comunque celebri dell’antichità pagana (mitici e storici), dell’antichità giudaico-biblica, dell’antichità cristiana, dell’antichità islamica etc. Così troviamo frammischiato Plato ‘chymicus’ con Hercules ‘Rex sapiens ac Philosophus’, Pythagoras con Jason (a causa forse del Vellus Aureum), Aristotele e Anaxagoras Clazomenius, Democritus ed Heraclitus, Apollonius Thianeus, Seneca e Cleopatra Aegypti Regina (presunta inventrice dell’alambicco) etc.
Pari larga promozione ebbero figure bibliche come Moyses (a causa del Vitulus Aureus o del Serpente di bronzo) e sua sorella Myriam (cui venne attribuita l’invenzione del ‘Mariae balneum MB’ e del ‘kerotaxis’), da Tubal-Cain (primo metallurgo) a Chem (figlio di Noè, nonché … etimo di alchimia) etc. Folta è la schiera degli Arabi e sorrideremo trovando per primo Mahomet Philosophus, al quale si accompagnano, oltre Avicenna e Geber, tanti Arabi o Mori o Saraceni, ai quali vennero ascritti molti importanti trattati.
Tra questi Calid rex Aegypti, un altro Calid Hebraeus (?) filius Chazichi, un Rex Saracenus, discepolo di Morieno romano, oltre, s’intende Artefius, autore del famoso trattato De Igne, del quale parla il Pontano. E chi sa non abbia ragione qualcuno dei moderni ‘Souphis’ a richiamarsi a quelle origini remote. Abbondano grandi ecclesiastici, monaci, eremiti; aprono il coro due santi, quali Thomas Aquinas ed il suo maestro Albertus Magnus Episcopus. Seguono Basilius Valentinus, Gilbertus Cardinalis, Androicus Episcopus e tanti altri frati e abati. Non ci vergogneremo della nostra ignoranza, se scopriremo di non aver mai saputo che siano esistite donne alchimiste, quali una Thaphuntia Foemina Philosophica, una Medera Foemica Alchimistica, una Euthica Philosopha Arabica etc. etc. Stupirà qualcuno nell’incontrare frammisto in questa ‘bella schiera’ il nostro Dante, chiamato ‘Dantius’ nel medaglione della Tavola IX° e ‘Dante Philosophus’ nell’epigramma XXXI.
Forse farà piacere che si concluda il profilo dello Stolcius con l’intrattenersi con questo casualmente coinvolto poeta italiano, anzi il massimo di tutti i poeti di ogni tempo.
Il medaglione raffigura due amanti in sfarzosi passi seicenteschi ai piedi di una ben significata fontana. Intorno alle figure, tra i due cerchi concentrici, il motto latino:


‘Praeparate corpora et solvite ea ex aqua Spiritus imbibite ablutos’ (in basso ‘Dantius Philosophus’)
‘Preparate i corpi e liberateli dall’acqua ▼ Imbevete gli Spiriti
dopo che siano stati sciolti’.


L’epigramma XXXI, relativo a Dante, dice amplificando il senso del breve motto su citato:
 

Solvite in humorem bene Corpora nostra parata,
Imbibite atque illo germina Spirituum.
Sic Juvenis blanda jungetur amore puella,
Illorum incedet dum pectus Amor (In alto ‘Dantes Philosophus’)

Sciogliete in umore i nostri Corpi ben preparati,
E di esso imbevete i germi degli Spiriti,
Così la soave fanciulla sarà congiunta dall’amore al Giovane;
Fino a che il loro petto terrà acceso Amore.

 

Dante alchimista? E perché no, potrebbe rispondere qualcuno con alquanta provocazione.
Nell’antichità e poi nel Medioevo circolava la leggenda di Virgilio mago accanto a quella di Virgilio profeta del Messia (Egl., IV). Anche per Dante; sin dai tempi in cui viveva il Poeta, fiorì la diffusa diceria di Dante mago. E non manca un’ampia bibliografia italiana e straniera in proposito.
Ambedue avevano cantato discese nell’Oltretomba, l’uno e l’altro avevano scritto in parecchi famosi ‘luoghi’ versi di quasi voluta oscurità.
Se Dante – per arditissima ipotesi di lavoro – fu alchimista, certamente non fu alchimista di quell’alchimia per la cui pratica egli condanna Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena (Inf., XXIX), eppure si sofferma a conversare affabilmente con loro: questi erano noti falsari e soffiatori (souffleurs).
Certo già ai contemporanei, o quasi, Dante parve ‘oscuro’. Il Boccaccio, che venerava Dante, dice in un sonetto a lui dedicato: ‘Dante Alighieri io son, Minerva oscura …'.
E versi tuttora oscuri o ‘strani’ ne aveva scritti tanti.
Anzi il poeta ne fa accorto il lettore del Convivio sin da principio, quando spiega che le scritture sacre sono da interpretarsi mediante quattro sensi etc., oppure, parlando dell’allegoria, quando la definisce ‘una veritate ascosa sotto bella menzogna’.
Più chiaramente poi nell’Inf., IX, 61-63:
 

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de i versi strani.

 

O inoltre nel Purg., VIII, 19-21:
 

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché il vero è ora ben tanto sottile
certo che ‘l trapassar dentro è leggero.

 

E allora … Dante alchimista?
 

Qual meraviglia! (Inf., XV, 22-23).”

 

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