Il documento che segue è opera d'ingegno di Elizabeth B. Welles di Boston, lecturer d'Italiano alla Stade University of New York at Albany. Pubblicato negli Stati Uniti con il titolo: "The Unpublished Alchemical Sonnets of Felice Feliciano" è stato tradotto in italiano e pubblicato sulla rivista internazione di Alchimia Kemi-Hathor nell'Aprile del 1985. Ogni diritto è riconosciuto. La libera circolazione dello studio è subordinata alla citazione della fonte (completa di link) e dell'autore.

© Elizabeth B. Welles

 
 

Lo stimolo al presente studio è costituito da una lettera e nove sonetti di Felice Feliciano, aventi l'alchimia come soggetto e che appaiono in un manoscritto inedito, di pugno dell'autore, presso la Biblioteca Houghton di Harvard (Tip. 157 della Raccolta Hofer).

Sebbene rimanga atipico quale umanista del Rinascimento, vista l'ampia gamma delle sue attività - Felice era archeologo, epigrafista, poeta, stampatore - l'esercizio dell'alchimia stava al primo posto.

Per un uomo della sua posizione e cultura aver a che fare con qualche cosa di così futile, materiale e degradante, e per giunta comporci dei sonetti, era davvero peculiare. Lo scopo del presente studio è di prendere in esame tale anomalia, alla luce della letteratura, dell'alchimia e degli indirizzi culturali dell'Italia del XV secolo.

Felice Feliciano (1433-79), soprannominato «Antiquarius», si scavò una nicchia nel contesto della rinascita del classicismo nell'Italia settentrionale con la sua attività di epigrafista. Nativo di Verona, fu secondo il novelliere Sabadino degli Arienti (1489), ben noto «per aver lui consumato gli anni suoi in cercare le generose antiquità de Roma, de Ravenna e de tutta l'Italia».

L'interesse per la cultura umanistica - sia per il linguaggio che per il mondo classico - produsse in Felice un'insopprimibile ansia per la loro trasmissione e preservazione. Ansia che egli espresse in modi alquanto concreti, tra cui l'annotazione di epigrafi non è che un esempio. Ispirato dai caratteri incisi che andava trascrivendo, Felice redasse un piccolo manuale del primo alfabeto, basato sui modelli della lapidaria dell'antica Roma. Si cimentò anche con miscele inchiostranti, una delle quali attribuita addirittura a Plinio, e già nel 1475 con la stampa ad impressione.

Rinomato per la sua conversazione erudita e brillante (« Uomo egregio de claro, ed erudito ingegno, letterato e de virtù laudevole pieno e de graziosa e lepida conversazione tutto onorato»), Felice poteva annoverare, tra i suoi amici e mecenati, artisti ed umanisti di egual statura. Già nel 1460 dedicava un sonetto al Mantegna, che definiva «eccelso amatore e studioso di antichità», e quindi «ritenuto uomo versato in nobili cose». Dedicò sonetti a Giovanni Bellini, a Marco Zoppo e allo scultore Cristoforo Geremia. Uno dei suoi protettori fu Giovanni Marcanova di Padova, epigrafista, collezionista di libri e dottore, con il quale Felice, in compagnia del Mantegna e di un cortigiano dei Gonzaga, Samuele Tradate, effettuò una importante spedizione sul lago di Garda, a caccia di iscrizioni. I quattro entusiasti, con Samuele paludato da imperatore alla romana, il Mantegna e Marcanova in veste di consoli, trascorsero in quell'occasione, per lo meno in base al resoconto di Felice, un periodo proficuo e piacevolissimo. Questa giocosa predisposizione alla scoperta della cultura classica, che compensa l'alquanto solenne soggezione che il Mantegna gli incute, é caratteristica di un uomo per cui Roma era non solo la fonte dell'apprendimento, ma anche un diletto inestimabile.

Il denaro, o la sua mancanza, era un problema continuo, e per guadagnarsi da vivere Felice lavorava spesso come amanuense. Non meno di 40 manoscritti sono stati identificati come di suo pugno. Quale letterato in sé, egli scrisse e copiò molte delle proprie composizioni, che assumevano svariate forme: epistolare, narrativa e poetica, e abbracciavano una varietà ancor più ampia di argomenti. Dei sonetti del manoscritto Hofer, ad esempio, il maggior numero (dodici) è indirizzato ad amici; tre sono a sfondo morale, altri tre sono scherzosi; cinque, invettive contro i detrattori, otto sono d'amore; due in morte della sua donna ascesa in cielo, tre si dolgono della povertà e nove trattano di alchimia; sono questi nove presentati di seguito.

Il flusso imponente di studi alchimistici del Medio Evo, che aveva attratto uomini del massimo calibro quali Alberto Magno (1193-1282), Ruggero Bacone (1214-92), Arnoldo di Villanova (1225-1315) e Raimondo Lullo (1240-1313), era più o meno in declino nel XIV secolo. Anche se gli effetti dei loro studi ampiamente filosofici conservavano echi vasti e duraturi, la posizione di preminenza dell'alchimia - quale sperimentazione altamente intellettuale dell'occulto - cedeva a poco a poco il passo all'astrologia. Mentre un astrologo era di solito persona colta, magari inserita in una corte o in una università, l'alchimista cominciava a dissociarsi dagli aspetti teorici della sua materia. Spesso si trattava di un individuo di condizione molto inferiore, che lavorava manualmente e non si escludeva che fosse anche un imbroglione.

Questa tipica reputazione degli alchimisti costituisce la base del personaggio che si fa strada nella letteratura italiana. Dante li colloca in fondo all'ultima valle di Malebolge nella generica categoria dei falsari. Petrarca rincara la dose nel suo De remediis utriusque fortunae (1354-66), dove parla in termini piuttosto denigratori di questa infima categoria di individui. All'inizio del dialogo, Ratio sottolinea a Spes il nocciolo della questione: «Ora io ti domando: speri tu di guadagnarti (mediante l'alchimia) altro che non sia cenere, sudore, sospiri, parole, disinganno e ignominia?» E prosegue, affermando che é l'avarizia a spronare questa follia che nessun uomo assennato prenderebbe in considerazione, in quanto, nella ricerca della ricchezza, egli dissiperebbe ciò che ha potuto guadagnare con un onesto lavoro. Alcuni sono tanto assatanati da non riuscire più a parlare con i loro concittadini, e sono invece «angosciati, non pensando ad altro che a mantici, pinze e tizzoni ardenti, né parlano ad alcuno che non sia della loro stessa risma, e diventano quasi uomini selvaggi... ».

Petrarca non solo marchia l'alchimista di comportamento antisociale, ma completa il quadro con i particolari della disperata esistenza e dell'inevitabile naufragio dell'alchimista stesso, la cui casa non può che essere piena di gente inqualificabile: sufflatores, deceptores, derisores: «ed ogni cantuccio sarà ingombro di polveri, catinelle, flaconi di acqua puzzolente, di erbe stravaganti, strani sali sulfurei, alambicchi e fornelli. E da tutte queste cose tu trarrai inutili ansie, vani criteri, una faccia sporca e insozzata, occhi spenti, e con tutto il tuo faticare non otterrai che povertà: e, quanto ora ti dico è quasi peggio, ti farai cattivo nome e menerai la tua esistenza nelle ombre notturne e nascondendoti vergognosamente».

 

Petrarca aveva forse incontrato questo prototipo d'alchimista ad Avignone, dove prosperava tanta di quell'attività da indurre il Papa, nel 1337, ad emanare un decreto contro di essa. Sia Pietro Bono, autore di uno dei rari trattati originali di quel periodo, sia Michele Savonarola, dottore padovano del XV secolo, deprecavano che praticanti avidi ed ignoranti avessero trasformato l'alchimia in frode. Si continuava a copiare manoscritti, anche in alcune costose ed illuminate, ma i testi eran sempre quelli vecchi, rivisti, rielaborati, ed editi di nuovo, a volte con nuovi titoli e nuova paternità.

In Italia, però, verso la metà del XV secolo, non sembra esservi stata molta richiesta, neanche, per materiale di tal genere. Non vi sono, ad esempio, incunaboli si sorta riguardanti l'alchimia.

Lo scarso concetto in cui l'alchimista era tenuto non era migliorato dal tempo del Petrarca al 1470, se dobbiamo basarci sulla scarsa considerazione che Felice si guadagnò in conseguenza. Suo fratello trovava quell'attività tutt'altro che meritoria, e lo accusava di essere «vagabondo... fantastico, prodigo, imitatore de le cose difficile alchimista, consumator di tempo e di pecunia in cose vane e fallaci... ». Felice dichiara di aver cominciato a sentirsi attratto dall'alchimia dopo aver rinvenuto un libro in un antico cassone, accuratamente impacchettato contro gli eventuali danni dell'acqua. Arienti racconta la stessa storia (XIV), ma aggiunge che Felice riteneva che il libro fosse un ricco tesor, scoprendo poi che si trattava dell'opera di Jeber. Tale era il nome latinizzato di Jâbir ibn Hayyân del nono secolo, un fecondo autore di istruzioni, in gran parte alquanto succinte, sulla sperimentazione, esenti dal linguaggio ermetico, caratteristico di un'alchimia più filosofica e mistica. Con il Quattrocento, i suoi scritti finirono col disperdersi in una confusione di testi, e molti trattati vennero raggruppati sotto il suo nome. Questo Jeber latino (o Gerber), che Arnoldo di Villanova chiamava Magister Magistrorum, in Occidente era considerato da parecchi secoli uno dei massimi nomi autorevoli dell'arte maggiore.

Felice sembra essere stato un allievo attento e devoto di Jeber; non che riportasse successi, ma per lo meno conosceva bene le relative procedure. La base dell'arte, secondo Jeber, era che i metalli fossero composti di zolfo e mercurio (o argento vivo), i quali figurano, entrambi, negli scritti di Felice (solphere e mercurio o vivo argiento). Altre sostanze includono arsenico in varie forme (arsenico, zolfo o arsenico, risagalli, orpimento); varie forme di antimonio, nome piuttosto vago attribuito ai metalli estratto dal kohl o dalla antimonite, o da qualsiasi cosa gli somigliasse (antimonio, crocho croco d'antimonio); vetriolo, cioè acido soforico, solfato (vedriola); allume (alume); pietra bora, acido borico; calce (calzina) e sostanze varie descritte come sali (salnitro, sal iema o salgemma, sal elebroth, elleboro). Figurano anche metalli più usuali: piombo, stagno, argiento, rame (cupro). L'armamentario è più o meno quello prevedibile. Ci sono recipienti per conservare e distillare: (vasel, vaso, bozze, rotondo vietro, ampollina di vietro, lambico, caldiera). Per riscaldare c'é un forno, (chiamato foro, fornello e fornel) come pure un mantice.

Il procedimento concreto é descritto succintamente come calzinar, sublimar e distillar.

É presumibile che l'obiettivo di Felice fosse di trasformare i metalli di base in oro, ma nei suoi poemi quel prezioso metallo non é mai menzionato. Egli é, invece, alla caccia dell'argento mediante la sublimazione di mercurio e di trisolfuro d'argento, o con antimonio, sali e rame, il che era un passo importante del processo di arrivare all'oro. Dice anche di aver cercato la pietra sancta, la pietra filosofale, ma non la quinta essenza che l'Arienti gli attribuisce.

In questi documenti sono incluse così tante nozioni da rendere difficile credere, anche senza la testimonianza del fratello, che Felice non avesse un'esperienza diretta di laboratorio. Le poesie però, sono importanti anche per quello che escludono. Felice cita sì altre famose autorità oltre a Jeber: Hermes Trismegistus, Alberto Magno, Raimondo Lullo, nonché il Rosario, ritenuto essere una compilazione di Arnoldo di Villanova. Ma se legge questi scritti, non sembra essere stato influenzato dalle loro forzature esoteriche. Né fa uso del simbolismo che colorisce molti testi, quale il drago che si morde la coda (materia in stato imperfetto), quale il leone verde (gli acidi forti) e così via.

Nella lettera si spinge al massimo ad usare qualcuno dei segni astrali per i metalli: argento, Luna, piombo, Saturno, stagno, Jove, ma ne omette altri usuali: Venus per il rame, Mars per il ferro e Sol per l'oro. L'essersi astenuto dall'allegoria e da tali suggestive raffigurazioni dimostra il suo approccio pratico alla materia e accresce il suo debito verso Jeber.

 

Tuttavia, il soggetto dei poemi di Felice non è una semplice descrizione stesa come un referto di laboratorio, ma è piuttosto l'effetto che l'alchimia ha su di lui. Un effetto che era, di volta in volta, giubilo, disperazione, speranza e frustrazione; Felice riversa la colpa del proprio insuccesso sullo stesso Jeber, che definisce Jeber falace, ladro sutile e Jeber Spagnol silvatico. In due distinte riprese maledice il giorno in cui aveva trovato il libro annidato nel cassone come un serpente (a guisa di visco), dolendosi di non aver piuttosto trovato un basilisco, da cui avrebbe potuto in certo qual modo difendersi. Con egual rancore indignato, lamenta d'esser caduto nella rete di quel spagnol, da cui non riesce a districarsi. Afferma di aver tentato di trovare l'elusiva sancta pietra, non dieci, ma centocinquanta volte, e sostiene di voler soltanto portare a concretamento quel che Jeber si vanta di poter fare come e quando gli aggrada.

 

I risultati della sua dura fatica sono senz'altro negativi. Felice si é ridotto lacero e sporco come un infimo briccone, ed ha l'aspetto di uno schiopetiero (di un pirotecnico). E poi, il fuoco gli ha infiammato i polmoni, scorticato le mani, bruciacchiato le sopracciglia, e lui sta diventando maniaco. E c'è di peggio, anche gli altri lo ritengono tale (con li pazzi posto in schiera), di modo che lui è divenuto un pubblico zimbello (del vulgo publica favola). Per ritorsione, vuole distruggere tutta la sua attrezzatura. «Voglio immurare il mio forno, spaccare i recipienti, sotterrare la luce, gettar nella latrina il mantice, inondar d'acqua il carbone, fondere il calderone». In extremis, vuole far le fighe a Jeber falso e prophano, e lordare la di lui immagine, significativo insulto alchimistico, dal momento che la divina arte mirava ad eliminare le materie impure (tra cui gli escrementi erano di certo i più impuri), allo scopo di pervenire alle massime e più perfette forme della sostanza.

La sua recriminazione più accesa, comunque, è che Jeber gli ha svuotato la borsa, e lo ha ridotto alla mendicità, ma ciò non di meno esige tutt'ora quattrini. L'unico premio per tutta la sua fatica è stato la vanità, e sebbene la speranza di ricchezza lo spinga ad insistere, lui non fa altro che divenire sempre più povero. Che questa triste ironia sia ben palese all'autore é avvertibile nella letteratura che delinea un quadro disastroso della situazione. Felice addossa la totale responsabilità a Jeber che lo ha indotto a dar fondo a tutti i soldi con falsa speranza senza mai alcun frutto, e che non ebbe vergogna ad incitarlo a gettare nel fuoco l'ultimo suo fiorino d'oro. «Eppure, tuttora desiderando di seguire le sue ricette, cedetti ad un Ebreo il mio mantello di lana foderato di pelliccia, né mi preoccupai se il sole fosse in Acquario o in Pesci. Né bastò che unissi al mantello alcuni libri scritti su pergamena, sempre allo scopo di comprare antimonio, allume e sali di molte specie per rinvigorire i suoi e i miei intrugli cerulei, e per tutto quest'inverno ho tirato avanti con una ragnatela di logora mantella contro le intemperie».

E prosegue paragonando Jeber al lupo dell'avarizia che più mangia più è famelico, e cita al riguardo la terzina di Dante. Ma Jeber gli ha demolito persino i muri di casa, si è persino divorato le tegole del tetto del vicino, per non parlare dei miseri indumenti di Felice, rimasto così quasi nudo.

Non si può fare a meno di rilevare l'amaro compiacimento con cui l'autore elenca tali singolari dettagli, pur affermando che tutto egli sopporterebbe con pazienza se almeno il rame divenisse argento, così come Jeber aveva giurato. In effetti, ciò che rende l'indignazione e lo scorno di Felice più significativi è l'ondeggiamento tra la disperazione per gli insuccessi e la speranza di successo. In uno dei sonetti, ecco come Jeber lo consiglia.

 

Non ti smarrir ma sii constante e forte,

Che tu serai anchor lieto e iocondo,

Et in effecto rimarrai Felice,

Rico d'un bel thesor fino ala morte,

Alhor apro le porte

a la speranza: e questo è il mio solazo,

S'ella mi falla mai più, non me ne impazo

 

In un altro sonetto il poeta si scusa per aver perduto la fede:

 

Jeber mai più dirò contra il tuo honore,

Mai più ti offenderò con mie parole,

Mai più serà il mio error come esser suole,

Mai più da te lontan starà el mio cuore.

 

L'atmosfera di questa composizione rasenta il religioso: Felice definisce Jeber Thesaurier de virtù, padre di ogni gratia, e asserisce che grazie a Jeber è stato distolto dall'erroneo cammino.

L'altalena emotiva di Felice ha un'eco ricorrente. Jeber lo inganna, gli dà speranza, lo getta nella disperazione e Felice lo esalta. Ha espresso (o magari inventato) questo rapporto soggettivo e personale con l'alchimista arabo, da sì gran tempo defunto, allo scopo di rientrare ed adattarsi alle formule convenzionali della poesia amorosa italiana in lingua. Infatti il raffronto di questi sonetti con una delle sue composizioni d'amore dello stesso manoscritto, rivela molte similarità. si legge nella titolazione:

 

Una Cyrce crudel m'ha posto un freno

Che mi tira e ravoglie col suo incanto

E son senza sperare conducto a tanto

Che la mia carne e siccha come un feno

E provo si possente il suo veneno

Ch'io non trovo turiagha: e son si affranto

Ch'il siloppo ch'io bevo e doglia e pianto

E la fiamma che mi arde porto in seno

El squardo ov'io mi specchio è un basilisco...
 

 

Le stesse immagini, anzi lo stesso frasario, si adattano ad entrambe le situazioni. L'irretimento, il basilisco, e i concetti centrali della perdita di speranza sono qui addossati a Circe, come in precedenza a Jeber. All'inizio del sonetto 120v, egli definisce se stesso sedotto come inveschato, intrappolato, come quando cade nella rete di Jeber.

 

Caduto son nel rete e invilupato
Di quel Spagnol: ne mai poterne ussire.

 

L'incapacità di sottrarsi alla passione si ripete in un altro sonetto d'amore alla sua donna:

 

Ai sfortunata e trista vita mia

che giorno e nocte mi vo consumando

Ne so como nè quando

Ussir di questa pena che mi acoro.

 

Il serpente velenoso, o il veleno, a cui l'influenza di Jeber viene paragonata, suona in un altro poema d'amore leggermente diverso:

 

Foss'io mutato in quercia o in duro saxo

Per che io non gusterei del tuo veneno

Pharetrato Cupido e traditore.

 

In un altro ancora, la passione viene definita ingrato amore:

 

Impio maligno inexorabil crudo

Nido di tradimento ingrato amore

Largo camin di errore

Fonte piena di doglia, albergo d'ira.

 

Il tono non é molto differente da quando si è rivolto a Jeber. Di contro, le composizioni poetiche in cui egli esalta la sua donna o la vergine nei cieli hanno la stessa atmosfera di gratitudine che anima l'elogio al maestro alchimista.

I poemi d'alchimia sono anche densi dell'usuale manierismo della poesia di Felice. Egli ha un debole per il linguaggio ricercato ed esotico, al quale il vocabolario dell'armamentario di laboratorio offre ottime disponibilità. Gli piacciono anche i giochi di parole, specie quelli sul proprio nome (serai anchor lieto e giocondo; Et in effecto rimarai Felice). In più, tendeva sicuramente all'esagerazione; con lui, un lamento diventa una disperata. Queste forzature erano spesso rese ancor più enfatiche dall'accumulo, quasi elencazione, di attributi, analoghi o del tutto contrastanti. Felice, inoltre, amava la celia, e si compiaceva divertire gli amici, facendone oggetto epistolare. In un'altra lettera, all'inizio del manoscritto, racconta di aver trovato in casa trenta topi, quindici dei quali egli inviava agli amici quale generoso omaggio, circostanza ricordata anche in un sonetto. Come dice nella lettera ad Antonio Nogarola, confida, col mettere per iscritto la burlesca circostanza, di «sollevare gli spiriti depressi e di apportare alla nostra conversazione un po' di giocondità», e spera di suscitare qualche riso e sollazzo col resoconto delle proprie avventure.

Che lavorasse su un forno sembra fuor di dubbio, ma nel trasferire tale esperienza nero su bianco, Felice assume un complicato atteggiamento letterario. Probabilmente i suoi poemi debbono qualcosa al Petrarca non meno che a Jeber. Egli raffigura se stesso nei panni tradizionali dell'alchimista del De remediis: sudicio, maniacale, malaticcio, sperperatore di buona moneta in cambio di fasulla, ma, anziché della condanna morale propugnata dal Petrarca, egli diviene oggetto di auto-satira. É indubbio che il viso privo di sopracciglia e coperto di sudiciume che si rivolge verso Jeber, quasi come a Maria Vergine, intende risultare degno di derisione.

Non troppe opere di poesia ha ispirato l'alchimia. Furono messi in versi alcuni trattati didattici, ma essi non sono che una piccola percentuale della letteratura, né possono realmente considerarsi poesia. L'alchimia si prestava anche come metafora dell'illusione e mutazione (si pensa subito al Donne, «L'alchimia d'amore»), ma la materia appare più spesso sotto forma satirica. La disdicevole, equivoca persona dell'alchimista ridotto in miseria, e la sua vittima credulona si prestano facilmente a mettere a nudo la vanità umana di ogni sorta.

Le reali affinità letterarie dei componimenti di Felice sono la Canon Yeoman's Tale di Chaucer, (1837) il Negromante dell'Ariosto (1520 e l'Alchemist di Ben Jonson, (1611) in cui appaiono sia il magister imbroglione sia la sua vittima.

Parecchi sono gli elementi che rendono poco chiaro l'approccio di Felice a questa categoria. Gli elementi fattuali danno alla sua poesia una autenticità che rende ingannevolmente comprensibili i suoi sfoghi contro Jeber truffatore, o la lode di Jeber il saggio. Tali discrepanze di atteggiamento possono essere il risultato del lungo coinvolgimento di Felice con l'alchimia, caratterizzato da frequenti mutamenti d'animo; oppure possono far parte di invenzione letteraria. Quella che in definitiva Felice coltiva é una posizione di satira esasperata contro se stesso, più chiaramente espressa nella lettera del 1472, conclusiva sull'argomento.

Il più ampio problema del perché questo umanista praticasse l'alchimia, attività stravagante e disdicevole ad un tempo offre molteplici possibili risposte.

Felice era stato avviato all'occultismo tramite canali diversificati: il tracciato dei caratteri nell'Alphabetum romanum é basato sulla numerologia pitagorica, e Felice si serve di una datazione astrologica nei suoi successivi manoscritti. Né si preoccupa di imbrattarsi le mani, come gli accadeva nel ricercare iscrizioni antiche o nel miscelare inchiostri. Ma era allo stesso tempo uomo di lettere. La suddivisione delle cognizioni umane, come espressa dagli sviluppo culturali del Rinascimento, seguiva due direttrici generali: da un lato, quella filosofica e medica, dall'altro, l'umanistica, contemporaneamente filologica ed etica. Coesistendo, i due sistemi interagivano naturalmente. Su di un piano comune, l'impulso umanistico a reperire e tradurre antichi testi ispirava la versione di Hermes Trismegistus ad opera del Ficino. Sebbene fosse in primo luogo figlio dell'umanesimo e della rinascita classica, Felice non poteva non essere influenzato dall'energia generata dal neo-platonismo e dall'ermetismo. A Padova e a Bologna, centri entrambi della cultura di Felice, questa energia veniva interpretata secondo la tradizione peculiare a quelle città, sedi dell'indagine medica e scientifica. Così, forse, riesce più comprensibile che la sperimentazione, anche sotto forma di alchimia, dovesse trovare posto proprio lì. Può anche darsi che l'interesse stesse aumentando: un editto che la vietava era stato emesso a Venezia nel 1488, e parte di quell'iconografia si fece strada all'interno dell'elusivo prodotto della cerchia di Feliciano, l'Hypnerotomachia Poliphili. In concreto, Felice abbracciava entrambi le estremità dello spettro: come poeta ed epigrafista fu un umanista, ma come alchimista fu alla scienza che si avvicinò.